Un SI per innovare le istituzioni
La scelta tra il Si e il No alla riduzione del numero dei parlamentari, a cui saremo chiamati il 20 e il 21 settembre, costituisce l’ultima tappa in una serie ormai consistente (e, invero, estenuante) di tentavi di riforma istituzionale. Si parte addirittura nel 1983 con i lavori della “Commissione Bozzi” e si giunge alla riforma “Renzi-Boschi”, bocciata dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Nel mezzo le commissioni “De Mita-Iotti”, la bicamerale “D’Alema”, il Comitato “Speroni” e la riforma costituzionale promossa dalla maggioranza di centro-destra, bloccata dalla vittoria dei No nel referendum costituzionale del 2006. Ebbene, già gli esponenti più avveduti e lungimiranti della classe dirigente della c.d. “I Repubblica” si erano accorti che il nostro modello costituzionale non avrebbe potuto reggere, senza adeguati interventi di manutenzione, alle trasformazioni del quadro geopolitico ed economico mondiale, in rapidissima trasformazione già dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Del resto, la forma di governo parlamentare disegnata nella Costituzione del 1948 è decisamente influenzata dalla necessità di favorire il coinvolgimento nei processi decisionali delle opposizioni e, in particolare, del PCI, che, per molti decenni successivi al Dopoguerra, non avrebbe potuto realisticamente sperare nell’ingresso nella area di governo, essendo l’Italia saldamente ancorata al “blocco occidentale”. Il “bicameralismo perfetto” e l’elevato numero di deputati e senatori erano, dunque, elementi di una impostazione istituzionale spiccatamente garantista, che, evidentemente, scontava un prezzo in termini di minore efficienza della forma di governo, che nei primi decenni della Repubblica era compensato (solo in parte) dalla solidità e dalla credibilità dei sistema dei partiti e della loro classe dirigente.
Della dialettica oppositiva tra rappresentanza e governabilità vi sono tracce evidentissime nei lavori preparatori, soprattutto nelle posizioni contrapposte di Terracini – il quale, in linea con l’indirizzo del Partito comunista, spingeva per l’ampliamento della rappresentanza – ed Einaudi – che, invece, segnalava i gravi rischi che tale scelta avrebbe determinato per la governabilità e per l’efficienza dell’organo legislativo della Repubblica. Il contrasto si concluse con la previsione di un numero variabile di parlamentari in rapporto alla consistenza della popolazione: un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila (art. 56 Cost.); un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila (art. 57 Cost.) Nel 1963, invece, una legge di revisione costituzionale stabilì il numero fisso di 630 deputati e 315 senatori (oltre, naturalmente, i senatori a vita).
Ebbene, già dalla fine degli anni Ottanta lo scenario è profondamente cambiato, tanto sul versante politico (e geopolitico), quanto sul piano istituzionale, così da rendere indispensabile un riequilibrio dei meccanismi della nostra forma di governo, all’epoca appositamente predisposti per rallentare i processi decisionali e spingere ad una gestione necessariamente compromissoria dell’indirizzo politico del Paese. Invero, di fronte al venir meno di ogni conventio ad excludendum, tanto nei confronti della sinistra, quanto nei confronti della destra, appare evidente come sia necessario recuperare le istanze della governabilità (inizialmente sacrificate in vista della ricostruzione di quel minimo di omogeneità necessaria per l’esistenza di ogni comunità politica) affinché la Repubblica possa essere in grado di affrontare efficacemente le sfide turbinose del mondo contemporaneo. Le riduzione del numero dei parlamentari rappresenta un tassello di questo necessario processo di razionalizzazione, che potrà e dovrà certamente essere completato con altri interventi di riforma.
Ed ecco, allora, che una prima ragione per votare “Si” è proprio quella che attiene al “metodo” delle riforme istituzionali. Sono ormai diversi decenni che il Parlamento italiano e le forze politiche provano a riformare la seconda parte della Carta fondamentale con un disegno complessivo ed organico, ma ogni volta gli sforzi si sono arenati. Sia nella campagna referendaria del 2006, sia in quella del 2016, uno degli argomenti più utilizzati da chi avversava le riforme “Berlusconi”, prima, e “Renzi-Boschi”, dopo, era quello della presunta inidoneità del referendum costituzionale al fine di assicurare una scelta libera e consapevole degli elettori sui differenti profili di una revisione complessiva del Testo costituzionale (struttura delle Camere, rapporti tra Governo e Parlamento, regionalismo, etc.) Ci fu addirittura chi si appellò (invano) alla Corte costituzionale, affinché fosse consentito il c.d. “spacchettamento” del quesito referendario. Se è così, allora, quale migliore occasione per riavviare i motori delle riforme istituzionali, se non quella offerta da un quesito chiaro e univoco per gli elettori? La riduzione del numero dei parlamentari non sarà la panacea di tutti i mali, ma contribuirà alla necessaria razionalizzazione della forma di governo.
In questo senso, vale innanzi tutto sottolineare come, in realtà, se vincesse il Si non vi sarebbe alcuna riduzione dei canali della rappresentanza rispetto al 1948 o al 1963. Innanzitutto, dal 1948 ad oggi si sono moltiplicati i canali rappresentativi attraverso cui le istanze della comunità possono essere veicolate nelle istituzioni; oltre al Parlamento, infatti, oggi i cittadini eleggono i Consigli regionali e i rappresentanti italiani al Parlamento europeo. Inoltre, dal 1993 è stata introdotta l’elezione diretta dei sindaci e, dal 1999, quella dei Presidenti di Regione. Dunque, le istanze dei cittadini possono essere veicolate nel quadro di un sistema di rappresentanza multilivello, che, peraltro, è stato ulteriormente amplificato grazie allo straordinario balzo tecnologico degli ultimi decenni, che assicura una circolarità di informazioni e di istanze inimmaginabile al tempo della Costituente. Al riguardo, basti pensare come oggi i lavori e gli atti del Parlamento siano direttamente e immediatamente accessibili dai siti della Camera e del Senato (cosi come anche per la altre assemblee rappresentative), mentre i cittadini, attraverso i social network e la posta elettronica istituzionale hanno sempre la possibilità di instaurare o stimolare un contatto con i proprio rappresentanti. Ma v’è di più. Negli ultimi decenni, in Italia come negli altri Paesi occidentali, accanto alle istituzioni parlamentari che ormai condividono le competenze legislative con altre assemblee territoriali, rilevanti settori di normazione sono assegnati ad istituzioni indipendenti (ad esempio, alle c.d. authority), che sempre più spesso assicurano la partecipazione di cittadini e di portatori di interessi qualificati nell’ambito di un nuovo modello di legalità di tipo procedimentale o, se si preferisce, di democrazia partecipativa.
Di fronte, alla riduzione degli ambiti di competenza del Parlamento e alla diffusione del canali rappresentativi, risalta ancor di più l’elemento comparatistico quale argomento a favore delle ragioni della riduzione del numero dei parlamentati. Il Parlamento italiano, infatti, non ha eguali in termini di consistenza numerica nel panorama occidentale; per di più con un bicameralismo che, assegnando a Camera e a Senato le medesime funzioni, vale a rendere assai laboriosi i procedimenti di formazione della legge e più incisivi gli strumenti di interdizione delle minoranze parlamentari. Non a caso, infatti, già dagli anni Ottanta il Parlamento ha perso in modo consistente capacità di iniziativa a favore dell’Esecutivo. Ciò è vero, in campo legislativo, come rivela la crescita ipertrofica degli strumenti del decreto-legge e della delega legislativa. Ma è vero anche sul piano dell’indirizzo e del sindacato politico, come dimostra il numero elevatissimo di Governi (talvolta “tecnici”, ma pur sempre in realtà politici) che, negli ultimi decenni, sono stati sorretti da maggioranze estemporanee e poco rappresentative degli orientamenti dell’elettorato. Maggioranze, magari distanti dal sentimento degli elettori, ma certosinamente raccolte proprio sfruttando l’elevato numero di parlamentari, la presenza di piccoli gruppi espressivi di personali “rendite di posizione” e quella degenerazione del (pur sacrosanto) divieto di mandato imperativo, che è il transfughismo parlamentare.
In definitiva, anche sul piano della rappresentanza politica, si può concludere che la “quantità” non corrisponde affatto alla “qualità”. Non conta, dunque, il numero di deputati e senatori eletti dai cittadini, quanto la loro capacità di raccogliere e veicolare le istanze dei cittadini rappresentati, filtrandole e sintetizzandole in politiche pubbliche che esprimano, comunque, l’interesse generale (o l’interesse della Nazione, secondo il richiamo dell’art. 67 Cost.)
Un Parlamento relativamente meno numeroso (deputati e senatori elettivi sarebbero, comunque, seicento) potrebbe svolgere meglio quel necessario confronto dialettico con il Governo, da cui dipende il buon funzionamento della forma di governo parlamentare, e potrebbe riconquistare legittimazione ed efficienza. Serve, dunque, un “Si” per un Parlamento più funzionale e autorevole, capace di essere il motore di ulteriori riforme istituzionali e, soprattutto, di una rigenerazione della classe dirigente della Nazione.