Una riforma costituzionale per la Nazione
Le Costituzioni non sono “foreste di pietra”. Sono, piuttosto, documenti giuridici solenni, che consacrano i valori identificanti per una comunità politica e che disciplinano gli strumenti organizzativi – i poteri, gli organi e i procedimenti – necessari per garantire ed attuare i primi in un determinato contesto storico, politico, sociale ed economico. Le Costituzioni sono, quindi, destinate a durare nel tempo; ma non sono e non devono essere immodificabili. Se muta il contesto storico, se si trasforma il quadro politico e ideologico di riferimento, se si evolve in modo significativo lo scenario sociale, economico e geopolitico che ne costituiva lo sfondo sarà necessario intervenire con opportune revisioni, per evitare una progressiva delegittimazione della Carta.
Nessuno può negare che molta, moltissima acqua è passata sotto i ponti edificati dalla Costituzione del 1948. Ponti che hanno consentito in settant’anni – grazie alla forma di governo parlamentare e al sistema elettorale proporzionale – di riguadagnare al comune denominatore dei valori di libertà, pluralismo ed eguaglianza sostanziale forze politiche radicate in orizzonti ideologici e valoriali inizialmente distanti dal comune denominatore democratico-pluralista, a destra (il MSI) come a sinistra (il PCI). Forze che, dopo la caduta del muro di Berlino e l’esplosione di Tangentopoli, hanno cambiato nome e fisionomia, accettando i principi della Repubblica quale cornice entro cui svolgere la competizione politica, anche grazie ad un quadro geopolitico, europeo e mondiale, liberato dalla camicia di forza della “Guerra fredda”. Era proprio questo, in fondo, l’obiettivo della democrazia consensuale delineata dal Testo costituzionale. Una democrazia “interloquente” – per richiamare le parole utilizzate da Giorgia Meloni nel suo intervento alla Camera in occasione del voto di fiducia – che spingeva al compromesso e al necessario coinvolgimento delle opposizioni nei processi decisionali (ma pur sempre entro il recinto dell’arco costituzionale). Una democrazia compromissoria, che, tuttavia, era progressivamente scivolata nel consociativismo, nell’esplosione del debito pubblico, nella cronica instabilità dei Governi e nella chiusura autoreferenziale dei partiti tradizionali rispetto alle istanze profonde della comunità. Non fu un caso, dunque, che i partiti tradizionali, proprio quelli che avevano costituito per decenni il perno della costituzione materiale della Repubblica, si disintegrarono nel giro di qualche mese agli inizi degli anni Novanta. Le inchieste della magistratura milanese offrirono solo l’innesco di una deflagrazione che era destinata, comunque, a determinarsi, aprendo la strada a nuovi soggetti politici e a diversi tentativi di riassetto politico-istituzionale. Tentativi di riforma che, a distanza di trent’anni e nonostante la spinta popolare referendaria del 1993, non possono dirsi ancora compiuti.
Il Presidente Cossiga – da statista navigato e ormai libero da condizionamenti – già agli inizi degli anni Novanta aveva ben compreso che – riconquistati alla democrazia i partiti antisistema e naufragato il comunismo, la cui minaccia aveva imposto all’Italia una democrazia bloccata – sarebbe stato necessario giungere al più presto alla riforma della seconda parte della Costituzione. Occorreva urgentemente rivitalizzare le istituzioni repubblicane e colmare il fossato che ormai le separava dalla comunità popolare. Spingendo le sue funzioni agli estremi limiti della “garanzia attiva” e come “rappresentante dell’unità nazionale” iniziò a sollecitare energicamente le forze politiche, conquistandosi il soprannome di “picconatore”, e indicando, con il messaggio alle Camere sulle riforme del 26 giugno 1991, le priorità da affrontare con le riforme: la forma di governo e il sistema elettorale, il ruolo delle autonomie, la disciplina dell’ordine giudiziario, i nuovi diritti di cittadinanza e gli strumenti relativi alla finanza pubblica. Fa impressione osservare come, nonostante tre Commissioni bicamerali (“Bozzi”, “De Mita-Iotti” e “D’Alema”) e almeno un paio di procedure di revisione bloccate ad un passo dall’approvazione con la bocciatura dei referendum confermativi nel 2006 (riforma “Berlusconi”) e nel 2016 (riforma “Renzi-Boschi”), tutti i temi reclamino ancora urgenti interventi riformatori.
Su tutti, ovviamente, spicca l’urgenza di intervenire sulla forma di governo. La difficoltà di formare maggioranze coese – che hanno condotto negli ultimi anni ad una successione di governi “tecnici” e a coalizioni (o, addirittura, a mere aggregazioni) tanto ibride, quanto precarie – si rispecchia in una diffusa sfiducia nella politica e nella ormai cronica disaffezione dell’elettorato. D’altra parte, la sempre crescente esigenza di una proiezione solida ed autorevole delle istituzioni nazionali negli scenari geo-politici ed economico-finanziari, internazionali ed europei inducono al superamento della forma di governo parlamentare per approdare a modelli di “democrazia decidente”. Tanto il modello semi-presidenziale gollista, quanto l’elezione diretta del capo dell’Esecutivo – secondo gli schemi ampiamente sperimentati ed apprezzati nelle regioni e nei comuni italiani e declinati a livello statale con la formula del “Sindaco d’Italia” – probabilmente varrebbero a riparare, anche al più elevato livello di governo, il tessuto sfibrato della sovranità popolare, come già, almeno in parte, avvenuto al livello delle istituzioni regionali e locali. L’elezione diretta del vertice dell’Esecutivo colmerebbe quel vuoto lasciato dalla crisi dei vecchi partiti politici, che nel primo modello repubblicano, con il loro profondo radicamento nella comunità, costituivano il principale veicolo di legittimazione democratica delle istituzioni e uno strumento essenziale della sovranità popolare.
Come procedere, dunque? Nel citato messaggio alle Camere del 1991 il Presidente Cossiga prospettava le tre vie alternative per la riforma delle istituzioni: 1) il ricorso alle procedure di revisione previste dall’art. 138 Cost.; 2) l’utilizzazione di procedure di revisione differenti rispetto a quelle prevista dall’art. 138 Cost., da introdurre, tuttavia, con specifica legge costituzionale; 3) l’elezione di una vera e propria Assemblea costituente.
Per far bene e per far presto (cioè entro l’orizzonte della XIX Legislatura) è da escludere soltanto l’Assemblea costituente. Quest’ultima, infatti, evoca per sua stessa natura momenti di frattura dell’ordinamento – spesso legati a fortissime crisi dell’identità e del sentimento di solidarietà politica di un popolo e di una nazione – cioè una crisi dei presupposti fondamentali dell’unità statale.
È, dunque, più opportuno seguire le strade già tracciate: la procedura ordinaria di revisione costituzionale dell’art. 138 Cost. o, meglio, quella della Commissione bicamerale. In quest’ultimo caso, secondo quanto già avvenuto in passato, sarebbe auspicabile l’approvazione di una specifica procedura volta a rafforzare le modalità di partecipazione dei corpi intermedi e del corpo elettorale al procedimento di riforma.
Ciò nella consapevolezza che ogni ipotesi di riforma della Costituzione deve tendere ad esprimere una visione della Nazione e a non coincidere, invece, con un vessillo di parte.
Felice Giuffrè
Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Catania