Vi è una alternativa alla follia della patrimoniale
Come uscire dalla crisi: contro la patrimoniale, per il ricalcolo contributivo.
Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della patrimoniale. Panacea di tutti i mali, farmaco salvifico pronto per i casi più difficili, estrema unzione con efficacia clinica dimostrata in numerosi occasioni tale renderla indispensabile nell’arsenale del politico incerto e titubante, pronto a sfoderarla come ultima ratio certo dei risultati che potrà conseguire. Si, ma a che prezzo? Il dilemma dei risparmi e delle proprietà immobiliari è ormai assurto al ruolo di cortina di ferro ideologica, per divedere le particolari abitudini degli Italiani nel disporre del loro denaro dal resto dell’Europa, specialmente da quella porzione di Stati Mitteleuropei universalmente rappresentati come laboriose formiche rispetto alle “cicale” Mediterranee. Un popolo di santi, di poeti, di eroi, di navigatori, di possessori di prime, seconde case e di un florido conto in banca, frutto di una paziente pulsione all’accumulo che cominciò con le prime buste paga da classe media, resistette alle spirali inflattive per adagiarsi placidamente nell’Euro. D’altronde in assenza di fondi pensione e con investitori istituzionali ancora lontani dalle orbite prefissate, la destinazione naturale di queste somme appare proprio questa. Ci ha pensato il Viceministro dell’Economia Misiani a rendere noto che giacciono nei conti correnti degli italiani o in liquidità 1400 miliardi di euro, invocando subito dopo la stipula di un fantomatico patto con i risparmiatori per il loro pronto reimpiego in tempi di magra. La questione assume un significato drammatico con l’avanzare del blocco delle attività produttive, appare ormai chiaro che gli squilibri di finanza pubblica lasceranno almeno quest’anno una ferita di cui tarderemo a veder formare la cicatrice. La difficoltà nel reperimento delle risorse e i quesiti sulla sostenibilità del debito pubblico in esplosione, anche in presenza degli interventi straordinari della Banca Centrale Europea, sono la spada di Damocle con cui chiunque sarà destinato a confrontarsi durante e dopo l’emergenza. E’ bastata una disperata pressione del leggendario e quanto mai sottorappresentato partito del Pil, per focalizzare l’attenzione su come ottenere la liquidità necessaria per far fronte anche al recente e contestato blocco totale della produzione industriale, che non accenna a fermarsi se non per poche eccezioni. Il concetto di scarsità delle risorse viene esacerbato a tal punto da far presagire foschi scenari di crisi sociale e occupazionale. La soluzione apparentemente più naturale, oggetto di incomprensioni e sospetti con gli Stati a clima continentale, si basa sull’equazione tutta italiana in cui ad un alto debito pubblico corrisponde un basso indebitamento delle famiglie accanto ad un elevato risparmio privato. In assenza di buoni propositi per rimettere in circolo il denaro lo Stato richiederebbe un contributo straordinario sui depositi, o come proposto di recente direttamente sui redditi, magari a garanzia dei prestiti delle imprese che potranno difficilmente essere coperti con un ulteriore aggravamento degli squilibri macroeconomici. Un trasferimento vero e proprio da sacrificare sull’altare dell’autoconservazione. Poco importa se quel denaro nel tortuoso percorso verso le imprese si perdesse e venisse dirottato nel calderone della peggiore spesa corrente, per essere sperperato in politiche assistenziali con cui la miopia della classe politica degli ultimi anni ci ha svezzato lentamente (il trio 80 euro, reddito di cittadinanza e quota 100), lasciando dietro di sé quel fetore di una campagna elettorale permanente che non accenna a fermarsi mentre è la spesa in conto capitale a restringersi sempre più. Ormai ridotta a percentuali degne di un dramma satiresco messo in scena nel disinteresse generale.
Tuttavia non può sfuggire l’impatto che una simile misura porterebbe con sé, sia in termini di consenso del Presidente del Consiglio, costretto inevitabilmente ad assumersi le responsabilità politiche, che dello sfacelo dentro e fuori il Parlamento che dovrebbe convertire una simile mossa in legge in tempi brevi e senza defezioni, rompendo l’aleatorietà della decretazione d’urgenza e fissando per sempre misure così impopolari, con conseguenti instabilità varie e ritorno tra le forche caudine dei mercati ad ogni asta del Tesoro. Inoltre non pare plausibile sommare alla limitazione della libertà di circolazione, un simile pregiudizio alla tutela costituzionalmente accordata al risparmio dei cittadini sotto tutte le sue forme.
E’ perciò più probabile che siano altri i lidi d’approdo. Un altro “vizio capitale” che ha dato prova di grande flessibilità è infatti il mattone. L’Italia è tradizionalmente un paese in cui la proprietà immobiliare è sempre stata capillarmente diffusa in tutti gli strati della società. Per questo motivo le oscillazioni del mercato hanno assunto il ruolo di indicatore predittivo nell’evoluzione del quadro macroeconomico. L’aggiornamento della banca dati immobiliare avvenuto nel 2019 riporta una generale riconferma dei trend storici. Nel 2016, su oltre 57 milioni di unità immobiliari, le abitazioni principali ammontavano a poco più di 19,5 milioni, gli immobili in locazione superavano i 6 milioni, stessi valori per quelli dichiarati “a disposizione”, anch’essi il 10% del totale. Ipotizzando che ad ogni abitazione principale corrisponda una sola famiglia, risulta dalle rilevazioni dell’Istat che il 75,2% di esse risiede in abitazioni di diretta proprietà, dato in linea con quello calcolato nel 2015. Emerge una forte differenza tra le aree geografiche del paese: il Mezzogiorno registra infatti una percentuale prossima all’80%, superiore alla media nazionale. Grandi squilibri si presentano nella quota di abitazioni non utilizzate da famiglie residenti, nel Sud Italia complice la maggiore presenza di “di seconde case” e di località turistiche balneari questo dato sale al 32% contro il 19% del Centro e il 23% del Nord. Le persone fisiche detengono una quota superiore al 90% del valore del patrimonio abitativo . La ripartizione per aree geografiche evidenzia in questo caso una concentrazione al Nord che rappresenta poco meno del 50% del totale nazionale, il restante 50% è diviso tra le Regioni del Centro e del Sud.
Quanto all’Europa le statistiche riportano come nel 2017 la maggioranza della popolazione di ciascuno Stato membro abitasse in un alloggio di proprietà, con quote variabili dal 51,4 % in Germania al 96,8 % in Romania. La quota di chi viveva in abitazioni in affitto a canone di mercato era inferiore al 10,0 % in 11 degli Stati membri dell’Unione. Dati destinati a ribaltarsi in Germania dove quasi il 40% della popolazione in Germania vive in locazione, in Austria e nei Paesi Bassi la cifra scende al 30%.
Questi dati testimoniano, in modo inequivocabile, come l’edilizia privata abbia da sempre rappresentato la destinazione per eccellenza del risparmio privato di numerose famiglie italiane, nonché come abbia svolto da propellente per l’impetuosa quanto disordinata crescita economica e urbanistica successiva al secondo dopoguerra. Un boom vorticoso che si riflette ancora oggi nella qualità degli immobili nei quartieri residenziali delle nostre città. Dal dopoguerra alla crisi del 2008-2011 il mercato immobiliare ha rappresentato uno strumento di rendita finanziaria pressoché perpetua. Una cascata di ricchezza da riversare per successione ereditaria, con la sicurezza che il valore degli immobili fosse destinato a crescere o quanto meno a rimanere stabile nel tempo. Un simile costume non poteva non attirare l’attenzione del prelievo fiscale sempre a caccia di risorse. Negli anni Ottanta in piena esplosione del debito pubblico si tentò inutilmente dapprima di colpire gli occupanti degli immobili, con un apposita tassa sui servizi comunali e in seguito i fabbricati strumentali, con un’imposta che agisse da condizione per l’esercizio di “imprese, arti e professioni” e che fosse proporzionata alla superficie in uso. Nel 1992 in piena emergenza economica, con il Governo Amato impegnato tenere la lira agganciata al sistema monetario europeo fu il turno dell’ISI: l’imposta straordinaria sugli immobili, il cui regime divenne presto ordinario e si tramutò nella ben più celebre ICI, la patrimoniale rivolta ad abitazioni, beni strumentali e terreni. Dopo un biennio di feroce campagna elettorale, culminato con un decreto fiscale che ne aveva escluso l’applicazione per l’abitazione principale nel 2008, l’imposta è tornata a colpirla nel 2012 nel quadro delle canoniche misure emergenziali del Governo Monti, assorbendo anche la tassa sul reddito delle sulle abitazioni secondarie. Riporta l’Agenzia delle entrate che dal 1993 al 2007 l’Ici ha garantito un gettito medio pari a circa lo 0,8% del Pil e ad oltre metà delle entrate tributarie dei comuni, un considerevole gruzzolo che spiega la crescente importanza dei trasferimenti sostitutivi seguiti alla sua abolizione sulla “prima casa”. L’Imu ha generato nel 2012 introiti pari all’1,5% del Pil; la quota destinata ai comuni (circa due terzi del totale) rappresenta il 65% delle loro entrate tributarie. Dal 2014 con l’Imposta unica comunale (IUC) si trasfondono in essa sia la componente immobiliare (IMU) che quella dei sevizi comunali (TASI e TARI), che conserva la stessa base imponibile dell’IMU con un’aliquota pari all’1 per mille. Entrambe tuttavia risparmiano dal 2016 le abitazioni principali che ricadono nelle principali categorie catastali.
Ad una stima affrettata parrebbe che un simile prelievo fiscale sul patrimonio immobiliare sia giustificato da una vitalità del mercato in grado di assorbire qualunque impatto. Purtroppo i dati testimoniano una realtà differente che sembra rispecchiare il declino generale comune ad altri settori produttivi. Riporta il focus del Prof. Andrea Giuricin sul settore immobiliare per Confedilizia l’Italia sia l’unico paese in Europa a non aver superato la crisi del biennio 2011-2013: i prezzi delle case infatti continuano a decrescere e la contrazione ammonta ormai ad un quarto del valore, circa 1300 miliardi di euro. E’ vero che il nostro paese sconta una “età avanzata” delle abitazioni risalenti agli anni successivi al boom economico, aggravata dalle insufficienti ristrutturazioni edilizie ma è tuttavia chiaro che una tassazione esasperata non può che influire sulla caduta dei prezzi. Altri Stati come Spagna e Portogallo, che hanno scontato bolle immobiliari ben peggiori del nostro Paese, riportano tassi di crescita superiori al 10 e al 5% nel secondo trimestre del 2019. Il valore del patrimonio immobiliare delle famiglie italiane si è quindi ridotto in meno di un decennio di 480 miliardi di euro, l’edilizia appare provata da una crisi senza fine nel comparto dei lavori pubblici in cui in otto anni si sono contate 120.000 imprese fallite e 600.000 perdite occupazionali, un bagno di sangue dipendente dalla sciagurata scelta di diminuire la spesa in conto capitale e aumentare quella corrente, sempre più ipertrofica. Le conseguenze già nel breve termine di un inasprimento fiscale sarebbero devastanti e minerebbero un settore in seria difficoltà verso il quale la politica non ha mostrato sufficiente sensibilità o apprezzamento.
La ricerca di soluzioni alternative che possano scongiurare un difficile ricorso all’indebitamento, con l’obiettivo di superare sia la crisi di liquidità che di instradare il Paese verso una vera ripresa economica, portano ad interrogarci su diversi fattori che l’emergenza coronavirus ci ha ricordato che non possiamo ignorare.
L’invecchiamento della popolazione Italiana è un trend che appare irreversibile, l’età media della popolazione nel 2020 supera i 47 anni, il 23% circa della popolazione supera i 65 anni. Nel 2018 in Italia i pensionati erano 16 milioni, cioè il 26,5% della popolazione residente. La spesa pensionistica ammonta al 16,6% del PIL per un totale di 300 miliardi di euro destinati a prestazioni previdenziali, la cui ripartizione è mal distribuita e appare incapace di trovare una sintesi tra esigenze di equità generazionale, meritocrazia e “privilegi” acquisiti: il 42,4% della spesa complessiva copre il 20% degli assegni più elevati, un pensionato su quattro percepisce un reddito lordo superiore a 2.000 euro, la metà di coloro che beneficiano di un trattamento pensionistico hanno versato i contributi per meno di 5 anni. Il numero di cittadini che hanno passato la soglia di povertà nel decennio 2009-2019 è aumentato da 3 a 5 milioni di persone. La popolazione più anziana non ha particolarmente risentito, contrariamente a quanto si crede, della spirale recessiva: il numero di poveri si è ridotto addirittura di un punto percentuale dal 5,5 al 4,4%, mentre tra i giovani, che difficilmente dispongono di un peculium patrimoniale sotto forma di immobili, i numeri sono raddoppiati oltrepassando la soglia del 10%. Il sistema retributivo ha svolto una formidabile azione di protezione sociale negli ultimi decenni ma con la crescita dell’aspettativa di vita appare oggi più che mai obsoleto perché non più diretto ad assicurare protezione sociale a quelle fasce svantaggiate di popolazione che ne avrebbero invece bisogno. La riforma Dini del 1995 ha ibernato un gruppo di beneficiari di assegni più cospicui con il requisito dei 18 anni di contribuzione, il ricalcolo contributivo a cui sono sottoposte le anzianità successive al 2012 grazie alla riforma Fornero potrebbe tuttavia non bastare in condizioni di shock esogeni come l’emergenza coronavirus ad assicurare la sostenibilità a lungo termine del sistema previdenziale e il rispetto delle minime garanzie di equità generazionale. Un’analisi degli economisti Stefano e Fabrizio Patriarca, pubblicata nel 2015 durante la presidenza Boeri stima in 46 miliardi di euro ogni anno i risparmi di spesa previdenziale imputabili ad un ricalcolo contributivo di tutte le pensioni, anche procedendo da una base di 2000 euro lordi il risultato sarebbe considerevole e non sfocerebbe nella “macelleria sociale” spesso addotta per giustificare il non-decidere . La cifra del resto corrisponde ad un sesto dell’attuale spesa e viene assicurata con il trasferimento di risorse sottratte alla fiscalità generale, perché i già esosi contributi che gravano su datori e lavoratori sono insufficienti a coprirne a malapena due terzi. Il dibattito sull’esistenza o meno di diritti acquisiti e sulla validità di un ricalcolo retroattivo appare quantomeno miope e obsoleto di fronte alla drammaticità delle condizioni della finanza pubblica e ai sacrifici che i prossimi mesi imporranno a tutti i cittadini, nessuno escluso.